Pastasciutta antifascista 2018
Vederli che stanno insieme, la gente che si raduna mentre si avvicina la biga dei Cervi, il carro che tutti usano da queste parti, perché il piano è inclinato verso il centro, così la roba che ci metti sopra sta inclinata uguale e traballa, certo, ma non casca giù quando il carro passa tra una fila e l’altra della piantata, sul terreno che molti non hanno ancora livellato, che sia l’uva dopo la vendemmia, il fieno o…
O la pastasciutta. Bidoni pieni di pastasciutta. I bidoni di solito usati per portare il latte al caseificio – cosa che noi Cervi abbiam smesso di fare con l’arrivo della guerra. Chili e chili di farina impastati a mano dalle donne dei Campi Rossi con l’aiuto di qualche vicina. Pasta messa a bollire nei pentoloni sotto lo sguardo soddisfatto e orgoglioso del vecchio Alcide. Chili di burro giallo e grasso fatti sciogliere e un diluvio di grana grattato sopra. […]
Giovanni si ferma nella piazza di Campegine. La gente si raduna, la folla cresce. Bambini che corrono come matti, commenti che si incrociano.
<<Vè, ma come mai?>>
<<È perché è caduto il duce!>>
<<Pane e pace!>>
<<Il pane poi arriva e se qualcuno ha del salame… intanto fatevi sotto, che c’è la pastasciutta!>>
E la gente si fa sotto eccome, col piatto, con la scodella, con la zuppiera. Con le mani. “Fame” non è una parola esotica e strana, neanche in queste campagne sicuramente meno misere di altre. Mangiano, è buona. Arriva del vino.
Arriva il contadino, il calzolaio, il postino, la sarta.
Arrivano reduci in licenza o in convalescenza. Arrivano anche i Reali Carabinieri, graduato e sottoposto.
[…]
Arriva anche uno in camicia nera – c’avrà ancora più caldo, poveretto. Ché il nero sotto il sole di fa sudare da bestia. Ma c’è un piatto di pasta anche per lui, non è il momento di fare differenze, è il momento di unire, di stare in compagnia mangiando e bevendo.
Anche così si fa politica, anche questa – a modo suo – è Resistenza.
È con queste parole che Adelmo Cervi, figlio di Aldo, ricorda nel suo libro “Io che conosco il tuo cuore” – o, per meglio dire, ricostruisce con l’immaginazione, visto che lui era nato da pochissimo – la serata del 27 luglio 1943 e la celebre pastasciuttata che la famiglia Cervi offrì a tutto il paese per festeggiare la caduta del duce. Quella stessa pastasciutta che, in tante piazze e città, abbiamo iniziato a replicare anche oggi, certi anche noi che festeggiare sia ancora un bel modo di fare politica, Resistenza e memoria.
A Piacenza il 25 luglio 1943 porta entusiasmo in città e manifestazioni antifasciste sparse in provincia, ma soprattutto,su impulso di Francesco Daveri si forma il Comitato Nazionale Antifascista piacentino che, con l’aggiunta di un Emilio Canzi finalmente libero dal confino e dalla prigionia e di altri importanti antifascisti piacentini, rappresenterà la premessa del Comitato di Liberazione Nazionale piacentino che nascerà all’indomani dell’8 settembre.
Noi crediamo che sia a questo entusiasmo, alla voglia di impegnarsi e di lottare, che pervadeva tanto la famiglia Cervi quanto ogni antifascista ed ogni staffetta, ogni partigiana e partigiano, che ancora oggi, anche mentre addentiamo la pastasciutta e beviamo uno scodellino di vino dobbiamo guardare come all’esempio da seguire. Perché nel portare in piazza un bidone di pasta non c’è solo la voglia di far festa, ma c’è la scelta di condividere questa felicità con tutti gli altri, la volontà di riunire la propria comunità senza escludere alcuno: la famiglia Cervi prese su di sé il rischio di preparare e offrire la pasta (le camicie nere erano ancora in giro e parecchio arrabbiate), ma volle che a festeggiare fosse l’intero paese. Ed è forse questo il senso più profondo di quei piatti di pasta, come dell’intera Resistenza: l’impegno di ogni singolo a favore della felicità del proprio prossimo. E in tempo di parole violente, egoismi e divisioni, partiti, movimenti e capitale che aizzano poveri contro poveri per i propri interessi, è un esempio rivoluzionario. E noi siamo fieri di riproporlo anche quest’anno, fieri di aver scelto da sempre di essere antifascisti.
Ma le ultime parole vorremmo lasciarle ancora ad Adelmo Cervi:
Però, se fossi appena un po’ capace, se lo sapessi fare, mi piacerebbe scriverci un libro intero, su quel maledetto e benedetto 1943, che i professori dicono che è stato il momento dell’attesa e della scelta. Che poi, detto in parole povere, così le posso capire anch’io, vorrebbe dire che qualcuno è rimasto lì acquattato, aspettando di capire da che parte tirava il vento, magari anche aspettando che il duce e la sua marmaglia facessero una brutta fine, ma senza alzare un dito, e invece qualcun altro ha scelto da che parte stare.
Adesso che tutti i gatti sono grigi rispunta ogni tanto qualcuno, anche pezzi grossi, politici e onorevoli che dicono: <<Adesso basta, anche chi si è messo la camicia nera aveva le sue buone ragioni e bisogna rispettare la memoria di tutti, diamoci la mano e siamo a posto così>>.
Bè, io dico di no. E dico di no pensando che anche mio padre direbbe di no, se oggi fosse qui.
VI ASPETTIAMO!!!!